IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  nella  causa  previdenziale
 promossa  dall'I.N.P.S.,  in  persona  del  leg.  rappr. pro-tempore;
 elett. dom. in Genova via XX Settembre 8/21,  presso  l'avv.  Coretti
 che  lo  difende  e  rappresenta come da mandato in atti, appellante,
 contro Schiaffino  Costanza,  elett.  dom.  in  Genova,  via  Brigata
 Liguria  n.  1/14  presso lo studio dell'avv. Salvatore Marino che la
 rappresenta e difende come da mandato in atti, appellata.
                           PREMESSO IN FATTO
    Con  separati  ricorsi  presentati  in  date diverse al pretore di
 Genova le  odierne  appellate,  titolari  di  pensione  diretta  gia'
 integrata al minimo e di pensione SO di reversibilita' non integrata,
 all'esito  sfavorevole  delle  domande  amministrative chiedevano, in
 applicazione degli effetti della sentenza  n.  314/1985  della  Corte
 costituzionale  (declaratoria  d'incostituzionalita'  degli artt. 2.2
 della legge n. 1338/1962 e 23 della legge n. 153/1969), e  successive
 di   segno  analogo,  dichiararsi  il  loro  diritto  al  trattamento
 d'integrazione al minimo sulla pensione SO e  condannarsi  l'I.N.P.S.
 al   relativo  pagamento  con  i  ratei  arretrati  ed  accessori  in
 conformita' al disposto dell'art. 6, settimo comma,  della  legge  n.
 463/1983    (sulla    c.d.    ciristallizzazione    del   trattamento
 d'integrazione  sulla  seconda  pensione   fino   al   suo   graduale
 assorbimento  nella  perequazione della pensione-base). Si costituiva
 l'I.N.P.S.   resistendo   sull'unica   considerazione    che    detta
 cristallizzazione    riguardava   la   sola   causa   di   cessazione
 dell'integrazione conseguente al superamento del requisito reddituale
 di cui all'art. 6, primo comma. Il pretore accoglieva le domande  dei
 ricorrenti   con   sentenza  appellata  davanti  a  questo  tribunale
 dall'I.N.P.S. con le stesse difese svolte in primo grado.
    Nelle more del  giudizio  e'  peraltro  intervenuta  la  legge  24
 dicembre  1993,  n.  537,  che all'art. 11, ventiduesimo comma, cosi'
 dispone: "L'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del  decreto-legge
 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, della legge
 11  novembre  1983,  n.  638, si interpreta nel senso che nel caso di
 concorso di due o piu'  pensioni  integrate  al  trattamento  minimo,
 liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del
 predetto  decreto-legge,  il  trattamento  minimo  spetta su una sola
 delle pensioni, come individuata secondo il criteri previsti al terzo
 comma, dello stesso articolo, mentre  l'altra  o  le  altre  pensioni
 spettano nell'importo a calcolo senza alcuna integrazione".
    All'odierna  udienza,  all'esito della discussione della causa, su
 eccezione delle appellate ritiene il  tribunale  di  dover  sollevare
 questione   di   legittimita'   costituzionale   di  detto  art.  11,
 ventiduesimo comma della legge 24 dicembre 1993, n. 537.
   All'esame della non manifesta infondatezza della  questione,  vanno
 tuttavia  premessi  alcuni  cenni  sulle  vicende della norma oggetto
 della "interpretazione autentica" a significazione  del  consolidarsi
 di   una   giurisprudenza  conforme  dei  giudici  di  merito,  della
 Cassazione e della stessa Corte costituzionale, basata  sulla  chiara
 comprensione  del  testo del visto settimo comma, art. 6, della legge
 n. 563/1983 e della sottesa ratio legis.
    L'art. 6 in questione, e' stato emanato a seguito di una serie  di
 pronunce  d'incostituzionalita'  (Corte  costituzionale  nn.  230/74,
 263/76, 34/81 e seguite dopo il  1983  da  Corte  costituzionale  nn.
 314/85,  184/88, 1086/88, 1144/88, 81/89, 142/89, 179/89, 250/89) che
 hanno espunto, per incompatibilita'  con  il  principio  generale  di
 uguaglianza,  tutti  i  divieti  particolari d'integrazione al minimo
 delle pensioni, auspicando (cfr. Corte costituzionale n. 148/1988) un
 intervento  legislativo  di  razionalizzazione che disciplinasse "sul
 piano generale, ispirandosi ai principi contenuti  negli  artt.  3-38
 della Costituzione la materia relativa al diritto all'integrazione al
 minimo":  l'art.  6  del  d.l.  n.  463/1983  ha quindi espresso una
 valutazione  bilanciata  del  rapporto  tra  esigenze  di  vita   dei
 pensionati  (riguardanti  non  solo  bisogni  elementari e vitali, ma
 anche del tenore di vita e la posizione sociale raggiunta per effetto
 dell'attivita' lavorativa svolta: Corte costituzionale n. 173/1986) e
 la predisposizione dei mezzi idonei a soddisfarle.
    In questo senso, il settimo comma dell'art. 6 e' stato introdotto,
 come  si  legge  nei  Lavori  parlamentari,  "al  fine   di   evitare
 l'istantaneo   ridimensionamento   del   reddito   previdenziale   in
 pregiudizio dell'assistito che perda il diritto  all'integrazione  al
 minimo".  Su  tale  ultimo  comma  si  e'  quindi  formata una solida
 opinione della Cassazione (cfr.  ex  pluribus  Cass.  nn.  7315/1990,
 841/1991)  secondo  cui  "in  ipotesi  di  cumulo  di  piu'  pensioni
 l'assicurato, ai sensi dell'art.  6  d.l.  463/1983,  convertito  in
 legge n. 638/1983 ha diritto ad un solo trattamento d'integrazione al
 minimo  sulla  pensione  d'importo  piu'  altro. Ma la cessazione del
 diritto all'integrazionesull'altra pensione non  implica  la  perdita
 del  relativo  trattamento  economico  essendo  questo conservato, ai
 sensi del settimo comma, fino al riassorbimento del detto trattamento
 per effetto della rivalutazione automatica della pensione-base". Tale
 lettura del chiaro disposto dell'art. 6 settimo comma ha  trovato  da
 ultimo conforto, diventando cosi' "diritto vivente" nella motivazione
 della pronuncia della Corte costituzionale (418/1991), interpretativa
 di rigetto dell'eccezione d'incostituzionalita' della stessa norma da
 interpretarsi  nel  senso  che "la misura della integrazione .. resta
 ferma all'importo percepito alla data del 30  settembre  1983  ed  e'
 destinata  ad essere gradatamente sostituita per riassorbimento ..per
 effetto della perequazione automatica".
    Cio' premesso, osserva il tribunale che  l'art.  11,  ventiduesimo
 comma,  legge n. 537/1993, riproduce esattamente la tesi difensiva da
 lungo tempo sostenuta dall'I.N.P.S. peraltro in netto  contrasto  con
 l'orientamento  giurisprudenziale  sopra  illustrato;  detto  decreto
 d'urgenza ricalca inoltre altre norme di contenuto identico contenute
 in disegni di legge o in decreti legge, che non avevano  superato  il
 vaglio delle Camere.
    L'esame  della  vicenda  formativa ed interpretativa dell'art. 11,
 ventiduesimo comma, legge n. 537/1993, consente, innanzitutto, di far
 intravedere un profilo d'illegittimita' costituzionale per  contrasto
 con gli artt. 101-104 della Costituzione.
    E'  stato  autorevolmente  ritenuto  (cfr. Corte costituzionale n.
 187/1981) che "non faccia buon uso della sua potesta' il  legislatore
 che   si   sostituisca   al   potere  cui  e'  riservato  il  compito
 istituzionale di interpretare la legge, dichiarandone mediante  altra
 legge  l'autentico  significato  obbligatorio  per  tutti,  e  quindi
 vincolante anche per il giudice, quando non ricorrano  quei  casi  in
 cui  la  legge  anteriore  riveli gravi ed insuperabili anfibologie o
 abbia  dato  luogo  a  contrastanti  applicazioni,  specie  in   sede
 giurisprudenziale" giacche' in tal caso la legge avrebbe solo il nome
 di interpretazione autentica.
    Quando,  infatti,  il  precetto  della  legge  antecedente  appaia
 chiaro, non dando luogo a contrasti giurisprudenziali o  scientifici,
 la   modificazione   dell'interpretazione   corrente   da  parte  del
 legislatore  successivo,  mediante  sostituzione  ad  essa  di  altra
 interpretazione,  equivale  a  novazione  legislativa  e  puo' quindi
 nascondere  il  fine  recondito  di  attribuire  al  nuovo   precetto
 efficacia  retroattiva  nei casi in cui la stessa non sia consentita;
 in ogni caso cio' costituisce  straripamento  dall'alveo  fisiologico
 della    funzione    legislativa,   con   invasione   di   un   campo
 costituzionalmente riservato al potere giudiziario.
    Ed allora non pare del tutto infondato  nel  caso  di  specie,  il
 dubbio  di  illegittimita' costituzionale per contrasto con gli artt.
 101 cpv., della Costituzione, che  affermando  che  "i  giudici  sono
 soggetti  solo  alle  leggi"  percio' stesso ne esclude ogni forma di
 soggezione rispetto all'autore della  legge,  Parlamento  o  Governo,
 quando  pretende di imporre - con contestuale vulnus all'indipendenza
 della magistratura tutelata dall'art. 104 della  Costituzione  -  una
 interpretazione  vincolante  e  difforme da quella consolidatasi come
 "diritto vivente" nella giurisprudenza di merito della Cassazione,  e
 della   stessa  Corte  costituzionale,  come  nel  visto  caso  della
 cristallizzazione di cui all'art. 6, settimo comma,  della  legge  n.
 638/1983.
    Osserva  in  ogni  caso il tribunale che, anche prescindendo dalla
 problematica del carattere interpretativo od innovativo  della  norma
 in  questione,  residuerebbe  pur  sempre  un macroscopico profilo di
 contrasto con l'art. 38 della Costituzione, secondo cui i  lavoratori
 hanno  diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle
 loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidita'  e
 vecchiaia, disoccupazione involontaria.
    Invero,  il  taglio  del  trattamento pensionistico effettuato dal
 Governo con l'emanazione dell'art. 11, ventiduesimo comma,  legge  n.
 537/1993  nell'ambito  di  manifeste  misure  protettive del bilancio
 degli enti previdenziali, va contro il precetto  dell'art.  38  della
 Costituzione pienamente osservato dalla norma sulla cristallizzazione
 del   trattamento  economico  vigente  al  momento  della  cessazione
 dell'integrazione al minimo sulla seconda ed  ulteriore  pensione  in
 fruizione;  tale  disposizione,  prevedendo  il graduale assorbimento
 dell'ormai vietata doppia integrazione  al  minimo  nel  tetto  della
 perequazione automatica della pensione-base, permette ai pensionati o
 pluripensionati  ai limiti, comunque, al minimo vitale, di non subire
 brusche variazioni dell'essenziale reddito  previdenziale,  come  del
 resto affermato dalla stessa Corte costituzionale nella vista recente
 pronuncia n. 418/1991.
    Da  ultimo  va  ancora  rilevato  come  l'interpretazione  imposta
 dall'art.  11,  ventiduesimo  comma,  legge  n.  537/1993,   comporta
 un'illogica disparita' di trattamento tra i pensionati per i quali il
 diritto   all'integrazione   della  pensione  venga  meno,  in  forza
 dell'art. 5, primo comma, legge n. 638/1983, per il  superamento  dei
 limiti  di  reddito,  e  quelli cui l'integrazione piu' non spetta ai
 sensi del terzo comma, dell'art. 6 citato, perche' gia' ne  fruiscono
 su altra pensione.
    Il  diritto  alla  cristallizzazione  della  pensione nell'importo
 integrato, maturato alla data del 1 ottobre 1983, spetterebbe solo ai
 primi e non ai secondi, nonostante anche per questi ultimi ricorra in
 astratto l'esigenza che ispira l'art.  6,  settimo  comma,  legge  n.
 638/1983, di evitare un'improvvisa decurtazione di reddito.
    Per tale ragione l'art. 11, ventiduesimo comma, legge n. 537/1993,
 si pone in contrasto anche con l'art. 3 della Costituzione.
    Quanto  infine  alla  rilevanza  della  questione di legittimita',
 basta osservare che, essendo tutti gli appellati titolari  di  due  o
 piu'  pensioni  in liquidazione anteriormente al d.l. n. 463/1983 di
 cui  una  sola  integrata  al  minimo,  la  norma  "d'interpretazione
 autentica"  contenuta  nell'art.  11,  ventiduesimo  comma,  legge n.
 537/1993 pare sicuramente applicabile a tutte le posizioni soggettive
 dedotte in causa.
    Va pertanto disposta la rimessione della proposta  questione  alla
 Corte   costituzionale,   dandosi  corso  agli  adempimenti  previsti
 dall'art. 23 della legge n. 87/1953.  get 7ma.in 0